“Nella notte dal 30 giugno al 1° luglio il colpo di mano contro il presidio militare di Isola, propiziato dall’accordo segreto con il comandante della postazione, è funestato dalla sventagliata di mitra di un sergente che, quando i partigiani si presentano come da intesa per prendere possesso del luogo e ritirare le armi, apre inopinatamente il fuoco, uccidendo Luigi Monella (che vediamo nella fotografia qui a fianco) e ferendo seriamente due altri garibaldini. La reazione al tradimento dei patti è cruenta: nella sparatoria scatenata d’improvviso cadono due militi muoiono, altri due vengono feriti, uno catturato (sarà passato per le armi), i rimanenti fuggono. Per il 3 luglio si preparano, a Cevo liberata, i funerali partigiani del ventiduenne Monella. La notizia, pervenuta tempestivamente al Comando della GNR di Breno, attira la rappresaglia fascista, nel calcolo di cogliere i garibaldini nel centro abitato e debellare una volta per tutte la piaga del ribellismo in Valsaviore. All’alba i militi neri si avvicinano al paese «rosso». La punta di diamante dello schieramento offensivo è costituita dagli elementi del Battaglione paracadutisti della Guardia. I rastrellatori salgono in assetto di guerra da Grevo-Dosso-Isola, da Andrista-Pozzuolo e da Berzo-Monte. Verso le 6 inizia l’attacco, scatenato da tre direttrici. In paese si trovano molti partigiani cevesi, che d’istinto decidono di resistere. Le linee difensive s’imperniano sui fucili mitragliatori posizionati a Villa Trinacria (specialmente ad opera di Domenico Gozzi «Feroce») e sul dosso di Villa Adamello, sede della colonia dei padri gesuiti (qui il comando delle operazioni è assunto da Aldino Bazzana e da Francesco Gozzi «Pipì») Diversi garibaldini si collocano in luoghi ad essi ben noti, dove simuovono sicuri; quando ripiegano, trovano nuove posizioni e riprendono a sparare. Al contrario, gli assalitori – sebbene sovrastanti nel numero e nell’armamento – combattono in posizione sfavorevole, ma alla lunga piegano i loro avversari. L’elenco dei 23 garibaldini coinvolti nei combattimenti del 3 luglio 1944: – Firmo Ballardini (classe 1922), Temù – Aldino Bazzana (classe 1917), Cevo – Arsenio Bazzana (classe 1918), Cevo – Bartolomeo Cesare Bazzana (classe 1900), Cevo – Tiberio Bazzana (classe 1923), Cevo – Leone Casalini (classe 1903), Cevo – Bernardo Cervelli (classe 1923), Cevo – Pietro Cervelli (classe 1925), Cevo – Giovanni Comincioli (classe 1916), Cevo – Domenico Gozzi (classe 1916), Cevo – Francesco Gozzi (classe 1914), Cevo – Dostoian Makartich (classe 1914), Unione sovietica – Domenico Matti (classe 1924), Cevo – Innocente Isidoro Matti (classe 1922), Cevo – Vittorio Matti (classe 1925), Cevo – Cesare Monella (classe 1924), Cevo – Domenico Monella (classe 1914), Cevo – Nino Parisi (classe 1915), Palermo – Domenico Polonioli (classe 1909), Capodiponte – Guerino Quetti (classe 1917), Cevo – Pietro Ragazzoli (classe 1925), Cevo – Angelo Salvetti (classe 1923), Cevo – Giuseppe Scolari (classe 1925), Cevo Domenico Polonioli, appostato nei pressi del cimitero in posizione sopraelevata, tiene a distanza gli assalitori con precisi colpi di fucile, finché rimane colpito da vari proiettili e resta esanime: il cadavere verrà recuperato dopo tre giorni. Si riproduce di seguito l’atto ufficiale del decesso, redatto nel dopoguerra. Dopo due ore di scontri, gli aggressori entrano in paese e azionano i lanciafiamme. Il primo edificio incendiato, nella parte bassa dell’abitato, appartiene alla famiglia Vincenti. Le avanguardie delle camicie nere si dirigono verso la casa di Luigi Monella, dove cospargono di benzina la bara del partigiano e poi vi appiccano il fuoco: evidentemente, sono stati bene informati sul programma della giornata. Mentre alcuni militari vilipendono la salma, altri provocano nuovi lutti. Il barbiere Giacomo Monella viene freddato con una fucilata alla schiena, mentre aiuta la sorella a fuggire. La contadina Giacomina Biondi è ferita gravemente in località “Albe” inizio via Androla. Lo Scalpellino Francesco Biondi, padre di quattro figli, viene ucciso davanti alla sua baita, alla presenza dei familiari. Il diciannovenne Cesare Monella viene ammazzato dopo la resa. Il diciottenne Giovanni Scolari, catturato e torturato, è condotto verso Saviore, legato a una sedia e fucilato. Dopo l’esecuzione, un milite fa rotolare con un calcio il cadavere – ancora legato alla sedia – lungo il prato in pendenza. Il corpo viene portato alla colonia Ferrari e quindi consegnatoai famigliari e la sedia, scheggiata dalle pallottole, conservata quale reliquia del suo martirio e come reperto della crudeltà fascista. L’incalzante successione degli eventi è ricostruita (in occasione del 50° anniversario) dalla testimonianza di Natalina Gozzi, con un interessante passaggio sul barbiere vittima inerme degli assalitori: Quella mattina ero andata in chiesa, per la messa. Tutto a un tratto entrarono dei fascisti e ci ordinarono di uscire; il prete fece in fretta a finire la messa e poi tutti scapparono verso casa. Io non riuscii a arrivarci e mi fermai dove c’è la casa di Borla, a recitare il rosario con altre donne, pregando perché la guerra finisse in fretta. Fuori, si sentivano molti spari: i fascisti avevano invaso Cevo! Poi, le grida della gente in fuga, perché i fascisti avevano incendiato la casa della Ciuta, dove c’era la bara di suo figlio Luigi, e le fiamme si erano attaccate alle case lì intorno. Allora dissi alle altre donne: «Se proprio devo morire, voglio farlo a casa mia». Mi feci coraggio e corsi verso casa. Sono passata davanti a Giacomo Monella, seduto tranquillo fuori dalla sua stalla, che ci diceva: «Eh, quanta paura per niente! ma dove scappate? Per quattro fascisti…». Poco dopo venne ucciso con una pallottola alla testa… Arrivo sulla porta di casa, quando vedo arrivare due fascisti che prendono un giovane che era ammalato: lo avevano fatto prigioniero, ma sua mamma con molto coraggio gli strappò il fucile e li convinse a andarsene. Terrorizzata dall’avvicinarsi delle fiamme, scappai fino al Mulinèl e poi, ancora, fino alla Poa, con alcuni vicini di casa, ma dovevamo stare attenti perché volavano pallottole da tutte le parti.” Cevo brucia. A gruppi di decine, persone terrorizzate salgono in affanno verso gli alpeggi. Circa centocinquanta abitazioni sono distrutte, totalmente o in parte. Gli sfollati, ammontano a centinaia. Una colonna di militi si spinge sino a Saviore, dove tortura e fucila il cinquantenne Domenico Rodella, invalido della grande guerra: un delatore lo ha segnalato come favoreggiatore dei partigiani. Anche qui vengono incendiate alcune case e perpetrate ruberie. Tra le abitazioni depredate, vi è quella della famiglia Barcellini, probabilmente segnalata da una spia. Le indagini della polizia garibaldina individuano quale collaboratore dei fascisti un elemento del luogo (noto come «Tumè»), poi catturato e giustiziato. Il diario di Giacomo Matti fornisce la cronaca avvincente e personalizzata della tragedia di quella giornata, tanto più veritiera in quanto redatta a caldo da chi ha assistito all’attacco, all’incendio e al saccheggio. La sua prosa arguta e ironica rileva la contraddizione tra gli ideali patriottici sbandierati dai fascisti e il loro concreto agire. Il fatto che egli stimi in ben duemila gli assalitori dipende dalla percezione soggettiva del testimone, atterrito dalla potenza di fuoco degli attaccanti, che a lui – come d’altronde a molti concittadini – apparivano sovrastanti per numero e per forza militare: Di buon mattino, provenienti dai quattro punti cardinali, entrarono in paese circa 2000 armati fino ai denti. Gente, com’essi dicono, che servono onestamente la Patria. Prima cosa asportarono il drappo funebre del deceduto Monella, già disteso sopra la bara, tutto pronto pel funerale. Poi, invece dell’acqua santa, aspersero la bara con benzina e bombe incendiarie. Ne nacque una fucileria con quattro od un branco di partigiani, i quali ultimi, sopraffatti dal numero, dovettero tagliare la corda. Da questo momento cominciarono gli incendi e i saccheggi in modo addirittura spaventoso. Donne, bambini e vecchi, con che tutti al più avevano una coperta, rincalzati alle calcagna da questi onestissimi con fucili mitragliatori, venivano cacciati all’ aperto. Molti uomini e donne tentavano la fuga, ma venivano raggiunti da raffiche di fucili. Per esempio, in questo modo trovava la morte il barbiere Monella… Nerone frattanto gioiva contemplando il triste spettacolo del paese, che tutto o quasi ardeva in fiamme per opera delle bombe incendiarie buttate a bizzeffe da costoro che servono onestamente la Patria. Prima di incendiare, e nelle case che non ardevano, diverse squadre di Unni si davano a spietato saccheggio: guastare, rompere e buttare tutto al diavolo. Donne, bambini, vecchi e uomini, visti gli incendi, sentiti gli scoppi delle bombe, le raffiche delle mitragliatrici e dei fucili, fuggivano all’aperto. All’ indomani del disastro, Alberto Monella si aggira tra le rovine fumanti della sua abitazione, per raccogliere con disperata dedizione i pochi resti del figlio Luigi: trova alcune ossa calcificate e le colloca amorevolmente in una scatola di latta, con l’intenzione di celebrare a fine guerra il funerale impedito dall’ assalto fascista.
tratto da “Il Museo della Resistenza di Valsaviore Guida alla storia e alla documentazione ” di Mimmo Franzinelli