8 Settembre 1943: dai microfoni della radio EIAR il maresciallo Badoglio, capo del Governo, diede l’annuncio della firma dell’armistizio e “…Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo”. Chi riesce a sottrarsi alla cattura da parte tedesca cerca disperatamente di tornare a casa, sotto l’ala protettiva della famiglia, in un ambiente amico. Dopo vicissitudini e travagli di ogni genere, giungono in Valsaviore decine di giovani, desiderosi di tranquillità dopo lo shock del fronte e del dissolvimento dell’esercito italiano. L’autunno 1943 fu segnato dalla costituzione della Repubblica Sociale Italiana (RSI) nata in funzione collaborazionista dei tedeschi al comando di Benito Mussolini: in novembre il governo mussoliniano dirama bandi di reclutamento ( “bandi Graziani”) per allestire formazioni armate al servizio dei tedeschi ma la grande maggioranza degli appartenenti alle classi di leva 1922-25, costretti a scegliere tra libertà o presentarsi alle caserme, decide di restare libera sui monti, aiutata anche dalla popolazione e soprattutto dalle donne, attraverso forme di solidarietà diffusa di occultamento e protezione. Autunno 1943-inverno 1944 trascorsero dunque all’insegna della renitenza: i giovani si trovano un nascondiglio e con cautela stringono rapporti di mutuo collegamento, mentre i genitori e le sorelle si fanno carico del loro sostentamento e dell’allestimento di una rete informativa estremamente efficiente, che scattava con tempestività quando si delineavano dei rastrellamenti. Molti di questi rifugi vengono ricavati in anfratti, soffitte, sottoscala, ecc…praticamente invisibili a chiunque non li abbia accuratamente preparati e occultati. Il salto di qualità dalla renitenza alla resistenza si verificò alla fine del 1943, inizio 1944: nel passaggio dall’una all’altra fase si rivelò determinante la figura di Antonino Parisi, giovane siciliano dal carattere energico e risoluto, stabilitosi dall’anteguerra a Edolo dove aveva sposato una giovane del luogo. Sbandatosi anch’esso dopo l’armistizio, dopo esser stato catturato e mandato in un campo di internamento tedesco a Bolzano riusce a fuggire per poi giungere in ottobre in Valsaviore e stabilirsi a Saviore, nella dimora dei Barcellini, famiglia di solida tradizione socialista, che sostenne attivamente il nascente movimento ribellistico. L’abitazione viene messa a disposizione del Parisi e di altri suoi tre amici: Luigi Ardiri, Donato della Porta e un certo “Calogero”. Questo rappresenta il primo nucleo del partigianato di Valsaviore, al quale si aggregarono altri ex militari non originari della Valcamonica e quindi elementi locali. A collegare Nino con la realtà locale è il maestro Bartolomeo Cesare Bazzana (classe 1900), già insegnante elementare di molti giovani ora inquadrati tra i «ribelli» e da essi considerato una persona autorevole, cui prestare ascolto, il quale rimasto in paese adempirà alla funzione fondamentale di interfaccia tra partigiani e cittadinanza. A dicembre i due trovarono un’intesa e venne stabilito di convocare a Fabrezza i gruppi di giovani renitenti e disertori; A gennaio il progetto di adunata ebbe attuazione e da quel momento si può datare la formale costituzione del solido nucleo partigiano che più tardi – collegandosi organicamente con il centro clandestino milanese del Partito comunista – assumerà la denominazione di Brigata Garibaldi. Vicecomandante della Brigata è Firmo Ballardini di Temù, il quale colto dall’armistizio a Siena torna al paese, aderisce con il cugino Venanzio Ballardini e con alcuni altri giovani del luogo al gruppo costituitosi attorno al colonnello degli alpini Raffaele Menici, rimane ferito in un agguato nel maggio 1944. Inizialmente operativo nell’area delle Fiamme Verdi, il commerciante Luigi Romelli “Bigio” nella primavera del 1944 passa con i garibaldini e assume la carica di vicecomandante della 54a Brigata succedendo al Ballardini. Siccome i fascisti gli bruciano la casa, la moglie e la figlia Rosi Romelli lo seguono nella vita tra i monti condividendo in modo continuativo le fatiche e i pericoli, le speranze e le gioie del «ribellismo». Rientrato al paese dopo l’armistizio, il giovane carabiniere Gino Boldini di Saviore, assume il comando del Gruppo polizia della Brigata e a lui si devono la maggioranza delle documentazioni fotografiche. Oggi, è il novantatreenne Gino Boldini a rappresentare la continuità della Resistenza, nella consapevolezza di testimoniare anche per conto di chi non c’è più la perennità degli ideali di giustizia e libertà. Attorno a lui, si stringono figli e nipoti dei tanti compagni di lotta, e anche chi, pur senza il vincolo di rapporti familiari, si riconosce in quella stagione fondante della democrazia repubblicana e della Costituzione. Il triestino Giuseppe Verginella, cresciuto in una famiglia operaia di fede comunista, a soli 17 anni viene incarcerato per motivi politicie dopo diverse vicissitudini viene inviato dalla delegazione centrale garibaldina in Valsaviore per orientare politicamente la Brigata di Nino, ma gli attriti tra due uomini dal carattere forte, incapaci di mediazioni, determinano lo spostamento di «Alberto» (questo il suo nome di battaglia) in Val Trompia, per allestire la 122a Brigata Garibaldi: viene ucciso brutalmente a Lumezzane nel gennaio del 1945 e alla sua memoria sarà concessa una medaglia d’argento al valor militare. Tra gli elementi più determinati vi è Guerino Quetti, originario di Artogne sposatosi a Cevo nel 1944, il quale convalescente a seguito delle ustioni riportate in Libia, si unisce convintamente ai primi gruppi partigiani della Valsaviore: l’ottima preparazione militare lo rende uno degli elementi più combattivi e in grado di operare secondo una precisa strategia bellica. La stagione invernale favorì il lento lavoro di organizzazione dei gruppi di paese (Cevo, Saviore, Valle, Ponte, Monte, Berzo Demo, Grevo, Cedegolo e fuori dalla Valsaviore i gruppi di Val Malga, Sellero, Malonno, Garda e di Bienno) che poco alla volta si prepararono ad affrontare armi alla mano i militi fascisti e i tedeschi: la prevalente origine valsaviorese dei garibaldini assicuraai giovaniribelli il sostegno di familiari e amici, la complicità di conoscenti el’abilità di muoversi a proprio agio nei centri abitati e negli alpeggi. Cibo,informazioni e rifugio sono i tre fattori decisivi per la sopravvivenza deigruppi, particolarmente in occasione dei rastrellamenti, quando ingenti reparti fascisti e tedeschi salgono da Cedegolo per «ripulire» la montagna dal «banditismo». Il fattore localistico giocò un ruolo decisivo nel radicamento e nella tenuta della Resistenza: vi sono stati nel corso del tempo numerosi spostamenti della sede dei ribelli poichè la mobilità era la regola essenziale della sopravvivenza. Così, di volta in volta, il comando ebbe sede a Mulinel, al fienile Sura Casera, alla malga Aret , nei fienili di Pes e in altre località ancora. Era abbastanza normale, nella primavera del 1944, che i partigiani del luogo scendessero di tanto in tanto dalle baite montane nei centri abitati, solitamente all’imbrunire, per poi ritornare negli alpeggi alle prime luci dell’alba. Vari i motivi di queste visite: trascorrere qualche ora con i familiari, procurarsi viveri e oggetti utili alla vita alla macchia, coltivare rapporti sentimentali. Questo il contesto generale nel quale situare l’uccisone di Bartolomeo (Bortolo) Belotti, soprannominato Macario, per le sue capacità istrioniche e l’abilità mimica con cui imitava il noto comico torinese e che, proprio per la fervida inventiva, l’ironia e la disponibilità allo scherzo si era fatto subito benvolere: i suoi frizzi sollevavano il morale dei compagni nei momenti di riposo. Nella prima serata del 7 Maggio 1944, condusse nella propria abitazione l’amico Firmo Ballardini, e poi si fece da questi guidare a Saviore, nell’abitazione dei Barcellini, per salutare un paio di maestre che vi avevano alloggio. Un carabiniere della stazione di Cevo, il valtellinese Giovannini, probabilmente a seguito di una ingenua confidenza carpita ad una insegnante del luogo con la quale aveva una relazione, organizza un appostamento per le vie di Saviore e i due partigiani cadono ignari nell’imboscata. A seguito degli spari, Bortolo viene colpito a morte e Ballardini dopo aver risposto al fuoco colpendo alle gambe i due militi riuscì a salvarsi in una stalla e a cavarsela con lievi ferite. La morte di Belotti lasciò una profonda impressione nella popolazione della Valsaviore e tra i compagni di lotta del caduto: a lui venne intitolato un distaccamento dei partigiani di Cevo e nell’estate – allorquando la Delegazione garibaldina milanese invitò la Brigata di Valsaviore a scegliersi un nome – la formazione comandata da Nino Parisi si denominò ufficialmente “Brigata Bortolo Belotti”. Il giorno successivo vengono messe al muro 9 persone della Valsaviore, tra le quali unica donna, Enrichetta Comincioli cara amica di Bortolo: gli sfortunati valsavioresi, dopo essere stati condotti al carcere giudiziario di Brescia e torturati per circa un mese allo scopo di estorcere informazioni sulla Brigata, vengono infine deportati nei lager nazisti; Enrichetta Comincioli (Cevo 1923-2016 ), mentre trasporta il latte tra il paese e le malghe, opera come staffetta per conto del Comando di Brigata, utilizzando questa sua mobilità per una preziosa missione informativa che tuttavia la espone all’arresto, il 7 maggio 1944: dopo qualche ora nella caserma di Cevo viene trasferita nelle carceri di Brescia, dove le si chiedono insistentemente notizie sul comandante della Brigata, sui rifugi dei partigiani e sui civili ad essi favorevoli; nel vano tentativo di farla parlare, viene torturata. Trascorso circa un mese è condotta al Comando SS di Verona; poiché anche questo ulteriore interrogatorio risulta inutile, viene internata nel campo di Fossoli e successivamente deportata nel lager di Ravensbruck dove rimarrà fino a Maggio del 1945 in seguito alla liberazione da parte dell’Armata Rossa. Il fenomeno della mancata presentazione alle armi era massiccio in Valsaviore così che nella primavera del 1944 s’intensificarono i rastrellamenti, quasi sempre condotti congiuntamente da fascisti e tedeschi, nel tentativo di individuare il rifugio dei renitenti: grazie al tam- tam informativo e alla conoscenza ravvicinata del territorio, i partigiani riescono a sganciarsi senza perdite; alcuni rastrellamenti durano più giorni e costano l’arresto a diversi civili, sospettati di favoreggiamento dei ribelli. Verso la metà di Maggio arrivò in zona un Reparto di Polizia Speciale, meglio noto come «Banda Marta»: si tratta diuna formazione apparentemente irregolare e perfettamente armata, i cui componenti sostenevano di essere partigiani ansiosi di collegarsi con i loro compagni ma in realtà erano avanzi di galera liberati a patto di arruolarsi nell’esercito fascista alternando furti alle violenze. Nell’intento di agganciare i ribelli, all’alba del 19 maggio durante un rastrellamento costringono alcuni contadini a guidarli sino ai fienili di Musna, tradizionale rifugio di renitenti e partigiani. Una volta giunti all’altipiano di Musna irrompono in una baita ed uccidono due vecchi agricoltori, i coniugi Giovanni e Maria Monella con la figlia Maddalena e non ricevendo indicazioni su dove fossero nascosti i garibaldini fucilano lo scalpellino Francesco Belotti. Giovanni Boldini, uno dei malcapitati sequestrati con la forza dai banditi neri, viene talmente percosso da ammalarsi e morire poco tempo dopo Sulla via del ritorno, sempre fingendosi partigiani, giunti a Zazza di Malonno dopo essere stati rifocillati dal parroco Don Giovanni Battista Picelli, lo assassinarono. Dopo il sostanziale fallimento dell’incursione della Banda Marta e il buco nell’acqua del bando Mussolini per la presentazione dei disertori entro la mezzanotte del 25 maggio 1944, iniziò un periodo di relativa tranquillità, utilizzato dai partigiani per rafforzarsi sul piano logistico-organizzativo: di fatto, la Valsaviore diviene una zona libera, a utogestita dai garibaldini. Il disarmo del presidio GNR di Isola, attuato il 19 giugno da tre garibaldini, senza colpo ferire, e coronato dalla diserzione dei sette militi, è indicativo di una straordinaria capacità egemonica tanto cheil 30 giugno, al diffondersi delle vociferazioni sullaimminente entrata in Cevo dei garibaldini, il distaccamento della GNRsmobilita in tutta fretta: i funzionari di fede fascista e il segretario comunale e qualche altro camerata abbandonano la Valsaviore. Il Questore di Brescia, Manlio Candrilli, sollecita un intervento risolutore contro il ribellismo «sempre sensibilein Valcamonica, con epicentro a Valsaviore» e propone al ministero dell’Interno di organizzare «immediatamente un’azione decisa e a fondo per annientare questa banda di Valsaviore: viene dunque preparata una spedizione in grande stile, per chiudere finalmente i conti con i garibaldini camuni. Nella notte dal 30 giugno al 1° luglio il colpo di mano contro il presidio militare di Isola, propiziato dall’accordo segreto con il comandante della postazione, è funestato dalla sventagliata di mitra di un sergente che, quando i partigiani si presentano come da intesa per prendere possesso del luogo e ritirare le armi, apre inopinatamente il fuoco, uccidendo Luigi Monella e ferendo seriamente due altri garibaldini. La reazione al tradimento dei patti è cruenta: nella sparatoria cadono due militi, altri due vengono feriti, uno catturato e i rimanenti fuggono. Per il 3 luglio si preparano i funerali partigiani del ventiduenne Monella; La notizia, pervenuta tempestivamente al Comando della GNR di Breno, attira la rappresaglia fascista, nel calcolo di cogliere i garibaldini nel centro abitato e debellare una volta per tutte la piaga del ribellismo in Valsaviore. All’alba i militi neri si avvicinano al paese «rosso» e verso le 6 inizia l’attacco, scatenato da tre direttrici. Domenico Polonioli, appostato nei pressi del cimitero in posizione sopraelevata, tiene a distanza gli assalitori con precisi colpi di fucile,finché rimane colpito da vari proiettili e resta esanime. Donne, bambini, vecchi e uomini, visti gli incendi, sentiti gli scoppi delle bombe, le raffiche delle mitragliatrici e dei fucili, fuggono all’aperto. In paese si trovano molti partigiani cevesi, che d’istinto decidono di resistere collocandosi in luoghi ad essi ben noti per sparare: si muovono sicuri e ripiegano di volta in volta verso nuove posizioni mentre gli assalitori, sovrastanti nel numero e nell’armamento, combattono in posizione sfavorevole, ma alla lunga piegano i loro avversari. Dopo due ore di scontri, gli aggressori entrano in paese e azionano i lanciafiamme. Le avanguardie delle camicie nere si dirigono verso la casa di Luigi Monella, cospargono di benzina la bara del partigiano e poi vi appiccano il fuoco; Mentre alcuni militari vilipendono la salma, altri provocano nuovi lutti: il barbiere Giacomo Monella viene freddato con una fucilata alla schiena, mentre aiuta la sorella a fuggire, la contadina Giacomina Biondi viene ferita gravemente e lo Scalpellino Francesco Biondi, padre di quattro figli, viene ucciso davanti alla sua baita, alla presenza dei familiari. Il diciannovenne Cesare Monella viene ammazzato dopo la resa. Il diciottenne Giovanni Scolari, catturato e torturato, è condotto verso Saviore, legato a una sedia e fucilato. Dopo l’esecuzione, un milite fa rotolare con un calcio il cadavere – ancora legato alla sedia – lungo il prato in pendenza. Il corpo viene portato alla colonia Ferrari e quindi consegnato ai famigliari e la sedia, scheggiata dalle pallottole è ora conservata quale reliquia del suo martirio e come reperto della crudeltà fascista al Museo della Resistenza di Valsaviore. A metà luglio 1944 si tenne a Cevo una riunione per individuare le persone più idonee alla gestione del comune. Per volontà unanime si affida l’incarico di sindaco a Vigilio Casalini, un vecchio socialista benvoluto dalla popolazione. Ad affiancarlo, nel Comitato di assistenza comunale, sono Pietro Gozzi (Pì de Gos) e il contadino Giacomo Matti. Il gesuita padre Vincenzo Prandi tiene informalmente i rapporti con il capo della provincia, che ratifica la nomina di Casalini a commissario prefettizio. Attorno a queste persone si stringono altri cittadini volonterosi, impegnati nella sistemazione degli sfollati e nell’abbattimento degli edifici pericolanti. Per i garibaldini, l’elemento di raccordo con i nuovi amministratori è l’avvocato Aldo Caprani di Malegno, considerato la personalità più rilevante del partigianato comunista in Valcamonica, assumendo le funzioni di commissario politico della Brigata: dopo la Liberazione, contribuirà in qualità di unico deputato PCI provinciale della Costituente, al miglioramento della situazione socio-economico lombarda. Il 3 settembre 1944, a due mesi dall’incendio, i partigiani e la popolazione si trovarono al Plà Lonc per rinsaldare il reciproco patto di solidarietà: quell’assemblea popolare scongiurò il pericolo di una frattura tra popolazione e ribelli che gli avvenimenti del 3 luglio avrebbero potuto innescare. L’enfatizzazione degli aspetti militari della Resistenza ha tendenzialmente ignorato – o quanto meno trascurato – il ruolo determinante delle donne, l’anello forte della società contadina e il perno della solidarietà popolare, senza la quale i partigiani sarebbero rimasti esposti ai rastrellamenti senza provvidenziali cuscinetti difensivi: la figura della staffetta è strategica nel collegamento informativo, oltre che nel concreto supporto di cibo e di materiale ai giovani dislocati in località montane fuori mano. É oggi possibile ricostruire solo una minima parte degli episodi e dei gesti di solidarietà femminile poiché alla naturalezza con cui l’aiuto viene prestato, non corrisponde la rivendicazione o l’annotazione delle cronache dei rischi corsi per giovare ai garibaldini; Il Comando della 54a Brigata Garibaldi si avvale del fattivo contributo di un trio di straordinarie giovani: Maria Franzinelli, Rina Matti e Vittorina Michelotti. Incombe ormai l’inverno del ’44: in vista di un secondo inverno in montagna si rendeva necessario alleggerire le formazioni data l’impossibilità di nutrire ed alloggiare tutti i combattenti in alta quota. Il generale Alexander, comandante in capo delle forze alleate nel Mediterraneo nel suo “proclama” ordina alle formazioni partigiane di cessare le operazioni organizzate su vasta scala e di non esporsi in azioni pericolose approfittando ugualmente delle occasioni favorevoli per attaccare fascisti e tedeschi. Vi fu inoltre un compromesso: la temporanea smobilitazione, con l’iscrizione nell’organizzazione germanica del lavoro Todt che in Valcamonica abbisognava di uomini per realizzare lavori difensivi, così da esentare i dipendenti all’arruolamento nella RSI. Rimangono attivi in Valsaviore coloro che non possono rientrare nei luoghi di origine: 18 russi, 3 francesi, un polacco, il calabrese Bruno Ardiri e il pugliese Donato della Porta. Inizia una nuova fase, di silenziosa preparazione, di vigile attesa per l’ultimo combattimento, quello decisivo. All’inizio di dicembre 1944, i garibaldini subiscono uno dei più dolorosi rovesci, a causa di un generoso ma micidiale errore di valutazione su di un ragazzino di Grevo, Lodovico Tosini, catturato in Valsaviore, dove si era inoltrato in missione esplorativa per conto dei tedeschi. Quale trattamento praticare alla spia? Tenerlo prigioniero, è impossibile: i partigiani non dispongono di carceri e sono costretti dalle circostanze a rapidi spostamenti; la scelta è dunque tra la fucilazione o la liberazione. Alcuni partigiani propongono l’eliminazione dell’infido intruso, ma il fatto che Lodovico non abbia ancora compiuto i sedici anni renderebbe particolarmente crudele l’uccisione. A decidere, nel tardo pomeriggio dell’8 dicembre, è il russo Michele Dostojan: gli raccomanda di rigare diritto e lo lascia andare. Sceso a valle di gran carriera, lo spione corre alla caserma della GNR di Capodiponte e racconta di conoscere il rifugio dei garibaldini: cogliendo al volo l’occasione il maggiore Spadini organizza una spedizione nazifascista verso la Valsaviore guidata dal ragazzo. Il repartosi apposta attorno al fienile in località Baulé, nei pressi di Valle di Saviore, dove per tragica fatalità, dopo il rilascio del prigioniero, sei partigiani avevano deciso di pernottare, invece di proseguire sino alla sede del Comando, distante un’altra ora di cammino. Non avendo previsto un servizio di guardia, vengono sorpresi nel sonno e si ritrovano circondati, senza via d’uscita. Respinte le intimazioni di resa, inizia una furibonda sparatoria. Gli assalitori si avvicinano alla baita da nord, e poiché su quel lato non vi sono finestre, i partigiani devono crearsi una precaria visuale spostando le tegole. Quando la cascina viene data alle fiamme, escono con le mani in alto André Jarani, Franco Ricciulli, Bruno Trini e Donato Della Porta. Nato nel 1922 a Turi (Bari), era giunto in Valsaviore il 3 ottobre 1943 in qualità di militare sbandato; Tornato verso la porta, per convincere gli altri due compagni ad arrendersi, viene ucciso dai fascisti, convinti che voglia rientrare per continuare a combattere. Il parroco di Valle, Don Francesco Giuseppe Sisti, con l’aiuto di quattro ragazzi del luogo, raccoglierà l’agonizzante Donato della Porta e lo farà trasportare nella canonica, dove poco dopo si spegnerà. Sepolto nel cimitero di Valle, la salma dell’eroe partigiano giunse il 16 Novembre 1945 nella sua Francavilla, accompagnato, durante il lungo percorso, da due carabinieri e da sei rappresentanti della 54°Brigata Garibaldi. Il 24 settembre 1965, il Comandante del Distretto Militare di Lecce, conferì a Donato Della Porta, per l’attività partigiana, la Croce al merito di guerra. Gli altri due ribelli Zimmerwald Martinelli e Makartic Dostojan resistettero a oltranza sino alla fine e i loro corpi semibruciati furono recuperati dopo un mese e sepolti anch’essi nel cimitero di Valle di Saviore. Il 25 Aprile 2013 i tre partigiani morti a Baulè, vennero ricordati durante le celebrazioni ricorrenti la Liberazione con una lapide apposta sul fienile a perenne ricordo e monito per le future generazioni. La tragedia di Baulé gettò nella costernazione la 54a Brigata e con l’inizio del lungo inverno la vita sui monti si fece più dura a causa delle rigide temperature: le attività dei partigiani e dei loro nemici si attenuarono, e solo grazie all’aiuto della popolazione, scrisse Parisi, fu possibile “superare prove gravissime”. Per gli abitanti di Cevo significò un accrescimento delle difficoltà dato l’elevato numero di cittadini privi di casa e masserizie, ma l’encomiabile comitato assistenziale e la giunta comunale provvidero alla distribuzione di viveri, oggetti di prima necessità e sussidi e alla ripartizione degli aiuti attuando anche le prime misure per la ricostruzione. I due mesi iniziali del 1945 trascorsero senza eventi eclatanti, ma la pressione dell’apparato militare nazifascista rimase costante ed alcuni garibaldini vennero catturati ma riuscirono poi ad evadere, allorché Il progressivo avvicinamento del fronte alleato determinò un aumento della presenza nazifascista e a marzo ripresero con intensità le azioni partigiane e gli organici si andarono via via rimpinguando con il reflusso dalla Todt nelle formazioni partigiane. Nell’ultimo mese di lotta i garibaldini si proiettarono fuori dalla Valsaviore per estendere la loro rete organizzativa nella media e bassa Vallecamonica stringendo trattati d’amicizia tra le brigate e rafforzandole e potenziandole in vista dell’offensiva finale mentre il 28 aprile Nino Parisi si sposta in città per assumere il comando di tutte le forse garibaldine del Bresciano. Il 1° Maggio tra la frenetica ritirata tedesca verso il passo del Tonale e il tentativo dei militi fascisti di mimetizzarsi in abiti borghesi per tentare di salvarsi, Vigilio Casalini diramò alla popolazione della Valsaviore un proclama annunciante la Liberazione dal Nazifascismo e l’assunzione dell’incarico di Sindaco facendo appello alla collettività per provvedere alla ricostruzione dalle rovine belliche e indicando l’obiettivo degli sforzi comuni: “L’Italia ha bisogno di pace e tranquillità, dopo tanti angosciosi anni di persecuzione, di bassi egoismi, di vergogna materiale e morale”. Nel 2009 la nuova amministrazione municipale guidata dal sindaco Silvio Marcello Citroni ha istituito una commissione per il costituendo Museo della Resistenza, da intendersi «come strumento organizzativo per la promozione e la valorizzazione degli ideali della Resistenza, dei principi costitutivi della Democrazia, della Solidarietà, della Libertà e della Pace anche attraverso la divulgazione in particolar modo nel mondo della scuola» che nel 2012 portò alla costituzione dell’attuale Associazione “Museo della Resistenza di Valsaviore”.
Testi tratti da
Il Museo della Resistenza di Valsaviore
Guida alla storia e alla documentazione
di Mimmo Franzinelli
Illustrazioni di
Sabrina Valentini
A cura di
Katia Eufemia Bresadola