Testimonianza del garibaldino Virginio (Gino) Boldini

Riportiamo la preziosa testimonianza del garibaldino Virginio (Gino) Boldini, capo della polizia partigiana della 54a Brigata Garibaldi, pubblicata dal giornalista Enrico Giustacchini sul Corriere della Sera del 24.04.2012:

“Questa è la storia, straordinaria e quasi dimenticata, di un gruppo di soldati dell’Armata Rossa che scelsero di combattere per la nostra libertà sulle montagne della Valsaviore. A raccontarcela è chi li raccolse tra le fila della Resistenza e ne guidò l’operato: Virginio Boldini, il leggendario «comandante Gino». «Tutto cominciò nell’aprile del ’44. La ferriera di Berzo Demo era presidiata dai nazisti. Tra di essi, c’erano due fratelli armeni che erano stati fatti prigionieri e che, per aver salva la vita, avevano accettato di collaborare. Il direttore dello stabilimento, l’ingegner Magrini, il quale era antifascista, mi avvertì che i due avevano manifestato l’intenzione di unirsi ai partigiani. Fui io ad organizzare la loro fuga». Fu così che Mkrtic e Bagrad Dastoian entrarono tra i
ranghi della 54ª Brigata Garibaldi, con i nomi di battaglia di «Miscia» e «Bago».
Nei mesi successivi, altri soldati sovietici, in maggioranza armeni, seguono il loro esempio. In tutto, saranno diciotto. Miscia era il leader: affidabile, valoroso, di grande esperienza in ambito militare. Ma un po’ tutti si distinguevano per una particolare attitudine al combattimento, acquisita durante il servizio nell’Armata Rossa.
Cosicché, molte delle missioni più delicate venivano affidate a loro.«Anche umanamente erano persone meravigliose – sottolinea Boldini. – Limpide, sincere. Indimenticabili». Poi, arriva quel tragico 9 dicembre. «C’era la neve, tanta neve – ricorda il comandante Gino-. Avevamo tenuto una riunione a Ponte di Valsaviore. Al
ritorno, ci separiamo. Miscia e altri cinque compagni si imbattono in una spia fascista e la catturano. A salvarla dalla fucilazione, è proprio Miscia. Il prigioniero è giovanissimo, non ha ancora compiuto i sedici anni. ‘N pütì .
Come si fa a uccidere un bambino? Miscia gli dà un calcio nel sedere e lo manda via».
Un gesto di generosità pagato a caro prezzo. Il ragazzo, infatti, corre ad avvertire il comando dei repubblichini.
Tedeschi e fascisti circondano il fienile in località Baulè dove il gruppetto ha trovato rifugio. Lo scontro è violento. Tre patrioti vengono presi, uno è colpito a morte. A resistere, rimangono Miscia e Zimmerwald Martinelli, un italo-francese che già si era distinto nella guerra di Spagna. «Quando i due capiscono che non c’è più niente da fare – continua Boldini, – scelgono di suicidarsi per non cadere in mano nemica. Zimmerwald, però, non ha la forza di premere il grilletto e chiede a Miscia di farlo per lui. Miscia gli spara, poi rivolge l’arma contro se stesso. Qualche anno dopo, quel pütì che li aveva traditi, pentito e distrutto dal rimorso, deciderà di
entrare in convento».
C’è un altro armeno, tra le vittime partigiane in Valsaviore. Il suo nome di battaglia era Paolo, di cognome faceva
Akeer e proveniva dalla città di Kharkov. Fu ucciso a Sellero durante l’azione che aveva portato alla morte del capo organizzativo dei fascisti della zona. Un’azione che – come scrive pure Mimmo Franzinelli nel libro «La baraonda. Socialismo, fascismo e Resistenza in Valsaviore», edito da Grafo – fu affidata a una squadra composta
per intero da sovietici.
«Anche Paolo era bravo e coraggioso – racconta Gino. – Purtroppo, quella volta ebbe davvero sfortuna. I nostri, a missione conclusa, si stavano allontanando, quando il figlio della vittima, che noi chiamavamo il Gobbino, dalla finestra di un solaio sparò una raffica di mitra, colpendo Paolo alla schiena e ammazzandolo. Era il 17 dicembre, otto giorni dopo che Miscia ci aveva lasciato». Si velano al ricordo gli occhi del vecchio comandante. Pare, a lui, che tutto sia successo ieri, e che lugubremente brilli sulla neve il sangue versato da quei ragazzi venuti da tanto lontano e che aveva sentito così vicini al suo cuore.
Dopo la Liberazione, i partigiani dell’Armata Rossa tornano in patria. Uno di loro, Dimitrij Kulakovu detto Mitri, ferito al costato in combattimento, otterrà una pensione grazie a Boldini, che farà giungere la propria testimonianza alle autorità sovietiche. Va precisato che, nell’Urss di Stalin, Mitri e quelli come lui erano
considerati degli eroi di serie B, colpevoli di aver accettato, sia pure per necessità e per breve tempo, di vestire la divisa nazista. Una macchia che, nella retorica dell’epoca, non poteva essere cancellata del tutto nemmeno dai successivi atti di valore.
Bisognerà attendere la svolta gorbacioviana per una piena riabilitazione, che culminerà con l’apertura a Mosca
della «Casa del partigiano italiano». Virginio Boldini fu tra gli invitati all’inaugurazione, e riabbracciò, festeggiatissimo, i compagni di mille battaglie sulle montagne della Valsaviore”.

Immagini tratte dalla mostra tematica “I russi nella Resistenza” allestita presso il Museo della Resistenza di Valsaviore.
Si ringraziano di cuore il ricercatore storico Isaia Mensi per la preziosa e accurata ricerca e il compagno Alessandro Barzani, il nostro caro Billy, per il contributo fotografico.
https://www.museoresistenza.it/archives/1216